Un’escursione magica tra borghi, colline e letteratura
Lo scorso sabato, approfittando di una splendida e ventilata giornata di maggio, ho deciso di esplorare con alcuni amici un percorso che avevo nella mia lista da tempo: Il Cammino della Fiaba, un sentiero escursionistico che collega Pescia a Collodi, nel cuore della Valdinievole(provincia di Pistoia).
Un nome evocativo per un trekking di circa 12 km immerso nella natura, tra colline toscane, borghi storici e scorci da favola. Un’esperienza perfetta per chi cerca un’escursione in Toscana lontana dai circuiti turistici più battuti.
Quando nasce e perché
Il Cammino della Fiaba è stato ideato e promosso dalla Fondazione Nazionale Carlo Collodi, con l’obiettivo di valorizzare il patrimonio culturale e letterario legato a Pinocchio e al suo autore, Carlo Lorenzini (noto come Collodi). Il progetto mira a unire natura, storia e letteratura, offrendo un’occasione unica di turismo culturale e sostenibile in Toscana.
La Via Europea della Fiaba
Questo percorso fa anche parte della più ampia Via Europea della Fiaba, riconosciuta dal Consiglio d’Europa: un itinerario culturale che collega diversi luoghi europei legati a fiabe, leggende e tradizioni orali. Collodi, con il suo borgo fiabesco, è il punto di partenza e arrivo, a testimonianza della sua importanza nella narrativa fantastica europea.
Caratteristiche del sentiero da Pescia a Collodi
Lunghezza: circa 8,3 km ad anello, ma con deviazioni può raggiungere i 10–12 km totali.
Difficoltà: escursionistico semplice, ma con salite lunghe che possono mettere alla prova chi non è allenato.
Tipo di terreno: sentiero boschivo ben segnato, ma con tratti meno battuti e zone dove la vegetazione può essere alta (come tra Pescia e Collodi).
Punto di partenza consigliato: Pescia, nei pressi dell’asilo nido “Il Cuccolo”, dove è facile parcheggiare.
Punto panoramico: il tratto più alto si raggiunge dopo Collodi, con una vista splendida prima della discesa verso Pescia.
Il cammino attraversa boschi di latifoglie, antichi sentieri e regala scorci suggestivi, soprattutto salendo verso Collodi Castello, borgo medievale perfettamente conservato.
Cosa vedere lungo il Cammino della Fiaba
Collodi Castello: un luogo fuori dal tempo, dove pare che ogni pietra racconti una storia.
Parco di Pinocchio: un’attrazione imperdibile per grandi e piccini, ispirata alle avventure del burattino più famoso del mondo.
Villa Garzoni e Giardino Storico: un elegante complesso barocco legato alla famiglia Garzoni, presso cui lavorava la madre di Carlo Collodi.
Consigli utili per l’escursione
Quando andare: primavera e autunno sono le stagioni ideali per affrontare il percorso, grazie a temperature miti e colori mozzafiato.
Cosa portare: scarpe da trekking, almeno 1,5 litri d’acqua, cappello e magari un bastoncino per le salite.
Andatura consigliata: passo tranquillo, soprattutto nei tratti iniziali in salita da Pescia.
Il Cammino della Fiaba è perfetto per un’escursione slow, rigenerante, in mezzo alla natura e alla cultura. Ideale per coppie, famiglie o gruppi di amici che vogliono scoprire una Toscana autentica, tra boschi, borghi e personaggi da fiaba.
Inizia il tuo viaggio nella fiaba
Se cerchi un’esperienza diversa dal solito, lontana dal turismo di massa, il Cammino della Fiaba tra Pescia e Collodi ti aspetta. Indossa gli scarponi, prepara lo zaino e lasciati guidare dalla magia delle storie. Potresti scoprire che, in fondo, la fiaba sei tu.
Guido da cinque ore abbondanti e il sole si avvicina alla superficie increspata dell’adriatico mentre percorro l’ultima manciata di chilometri che mi separano da Trieste. Risalendo la costa che si inarca e si ingobbisce via via che ci si avvicina all’Istria, si avverte il respiro sornione del mare. Sembra ancora lontano quando la macchina si infila in un corridoio stretto tra due pareti di roccia carsica, brulla che rievoca spettri di battaglie che sembrano già lontane e che invece, risalgono all’altro ieri.
Prime impressioni della città
La strada, per lo più diritta fino a quel momento, diventa un serpente d’asfalto che si arrotola su se stesso e ci si ritrova ad osservare le ciminiere un po’ inquietanti della vasta area portuale da una certa altezza. Le cinque di un assolato pomeriggio di febbraio sono trascorse da poco mentre mi incuneo tra le vie labirintiche del centro in cerca di un silos dove parcheggiare dato che sui marciapiedi non sembra esserci spazio nemmeno per una bicicletta in più. Riesco – a fatica- a trovarne uno con qualche posto libero, vicino alla stazione. Da lì in poi proseguo a piedi. In neanche dieci minuti di camminata raggiungo uno degli scorci più caratteristici della città.
La Città degli Scrittori: Trieste Letteraria
Fermo sul ponte che lega assieme le due sponde del canal grande mi sembra di rivivere un po’ della Venezia più poetica mentre lascio che lo sguardo attraversi quell’ampia porzione di spazio, una piazza atipica che si allunga fino al mare da un lato e dall’altro si arresta sui marmi bianchi nell’elegante Neoclassico di Sant’Antonio taumaturgo, uno dei monumenti più riconoscibili, fotografati e famosi dell’intera città.
Alla ricerca delle statue illustri
Poco più avanti, la statua di Joyce saluta il mio ingresso in città. I libri che amo così tanto, a Trieste, diventano statue di bronzo che hanno le fattezze di chi ha scritto quelle pagine indelebili: Saba, D’Annunzio, Svevo, Joyce. Sono tutti sparpagliati per le vie del centro e capita che sedendo su una panchina, ci si ritrovi a condividerla con D’Annunzio. È una magia unica che accade solo qui.
Una città che somiglia solo a se stessa
Trieste è una città che sembra somigliare a molte cose eppure assomiglia solo a se stessa. È la stessa impressione che provo da alcuni minuti, alzando lo sguardo a più riprese per soffermarmi sulle eleganti statue che impreziosiscono alcuni dei palazzi più belli e sontuosi del centro storico. La città che vado scoprendo ha il carattere di un raffinato salotto italiano, dai contorni e dalle geometrie ben definite e allo stesso tempo, possiede la capacità di proiettarsi in un altrove che si allunga fino a confondersi con l’indefinito turchese di un adriatico che questo pomeriggio ha intenzione di regalare un tramonto indimenticabile.
Emozioni di un tramonto adriatico
Non posso perderlo per cui, allungo il passo fino a Piazza della Borsa per lasciare i bagagli nell’appartamento che ho affittato per un paio di giorni e correre verso il mare prima che il sole ci si tuffi dentro, scomparendo sotto la superficie setosa e calma dell’adriatico. Lasciati alle spalle i fardelli proseguo verso Piazza Unità d’Italia, un abbraccio d’aria, meraviglia e salsedine che mi costringe ad arrestarmi per godere di una meraviglia più unica che rara.
La Piazza
Mentre ruoto a trecentosessanta gradi ho le braccia spalancate verso il cielo che è parte integrante di un luogo che sembra nato apposta per ospitarlo. Mentre tento di trattenere un frammento di quella bellezza mi rendo conto che una piazza del genere esiste solo a Trieste per un motivo ben preciso. La piazza, per noi italiani, è un’istituzione. Un simbolo potente, radicato nella nostra identità collettiva, a cui associamo spontaneamente significati profondi: socialità, apertura, incontro, possibilità. A Trieste, questo simbolismo è ancora più forte.
Piazza Unità d’Italia
Qui, a differenza di qualsiasi altro luogo, un lato della piazza rimane aperto, pronto ad accogliere il mare che inizia poco oltre la sua pavimentazione. Piazza Unità d’Italia, infatti, guarda a Ovest, verso l’Adriatico. Si potrebbe tentare un paragone con Piazza San Marco a Venezia, che si apre sul Canal Grande ma il confronto non reggerebbe. È proprio in questo gioco di somiglianze e illusioni, in ciò che sembra ma non è, che Trieste rivela la sua essenza più autentica e inafferrabile. Mi ricorda un po’ i riflessi che venivano a crearsi sulla superficie limpida dei piccoli fossati che delimitavano il confine tra un campo e l’altro nella campagna di fronte a casa, in Toscana. Riemergo da quel sogno lucido, accorgendomi che il sole non mi ha aspettato, ed è già ampiamente sotto l’orizzonte.
In cielo resistono le ultime braci a cui mi aggrappo per spingermi fino al molo audace, una protuberanza di cemento che si allunga per svariate decine di metri nel blu dell’adriatico, ricavato da una nave austriaca, inabissatasi a metà del settecento proprio in quel punto. Percorrendolo, mi rendo conto di essere nell’unica grande città italiana che si affaccia sull’Adriatico da cui è possibile vedere tramontare il sole in mare. Mi è capitato di assistere ad innumerevoli tramonti sul mare, abitando a una ventina chilometri dalla costa Toscana ma un tramonto sull’Adriatico non l’avevo mai visto. Il tramonto ci avvolge in un abbraccio che scalda il cuore ma le membra no. Quelle sono ancora preda degli ultimi residui di bora che a quanto dicono ha spirato forte fino a poche ore prima che giungessi in città.
Un Bicchiere di Refosco
Di sera le luci si accendono e le strade dominate durante il giorno da idiomi, modi di fare, essere e vestire assai diversi, si svuotano, lasciando che siano le architetture eleganti e un po’ austere dei palazzi del centro a prendersi la scena. Per cena un ottimo goulash accompagnato da un bicchiere di Refosco, un vino corposo, dal sapore lievemente fruttato che non conoscevo prima di avventurarmi fino a qui.
Il sapore di un viaggio a Trieste
Ciò che amo di più, quando parto alla scoperta di un anfratto di Italia ancora da vivere, è la sensazione di possibilità che si tramuta in certezza ogni volta che spingo i miei limiti al di là del conosciuto, del già provato e vissuto. Possibilità di espandere vita le sensazioni e le emozioni, abbracciando qualcosa che fino a poco prima era altero, distante, sconosciuto e che a poco a poco, entra a fare parte del tuo orizzonte, ampliandolo ed espandendolo.
Le storie segrete di Miramare
È quasi primavera ma a Trieste sembra di essere ancora nel cuore dell’inverno. Mi tiro addosso la coperta pesante prima di girarmi su un fianco, abbandonandomi a Morfeo. Il sole riesce a trovare un pertugio nello spiraglio infinitesimale che viene a crearsi in mezzo alle tapparelle e arriva a solleticarmi gli occhi. Un’ora dopo assecondo i sobbalzi del pullman che percorre viale Miramare, una strada pittoresca che si allunga al di fuori di Trieste e prende il nome dal celebre castello verso cui sono diretto.
Il vento sembra un ricordo lontano e il sole che si specchia nelle acque turchesi, accarezza la pelle con un tocco caldo che richiama alla mente pensieri di primavera. Il castello di Miramare, somiglia a una conchiglia posata da Nettuno stesso nella posizione più bella di tutto quel tratto di costa. Quando lo vedi affiorare per la prima volta tra le fronde degli alberi che nascondono quella meraviglia da occhi indiscreti, per un attimo smetti di fare qualunque cosa stia facendo e rimani fermo ad inebriarti della bellezza che in alcuni e sempre più rari momenti, si impone al di sopra dell’assurda e vuota cacofonia di suoni luci e stimoli di cui siamo costantemente prigionieri.
Gli interni trasudano eleganza. Il profumo del legno ei dettagli degli intarsi però non supera mai la sensazione che provi quando l’occhio cerca un ritaglio di mare oltre una delle immense finestre che si spalancano verso le mille sfumature di azzutto e tu inizi a sentirti come un gabbiano che solca senza peso il cielo, Rimango fino a pomeriggio inoltrato.
Prima di andare
Le ombre si allungano quando il bus mi scarica nei pressi di Piazza della Borsa. è quasi tempo di andare a Trieste ma prima di salutarti allungo il passo fino a Piazza Unità d’Italia e chiudo gli occhi. Il vento è tornato. Ascolto il gracchiare lontano di alcuni gabbiani, i dialetti che si mischiano alle urla dei bambini e il rumore che fa la vita nei giorni in cui ti capita di sentirla distintamente.
La cerchi nei posti più impensabili ma lei è sempre lì, nelle emozioni che senti, nei sorrisi che indossi e nel coraggio che cerchi ogni giorno per scegliere qualcosa che sia intimamente e meravigliosamente tuo.
Nascosta tra le dolci colline della provincia di Siena, l’Abbazia di San Galgano è uno dei luoghi più affascinanti e suggestivi della Toscana. A pochi chilometri dal borgo medievale di Chiusdino, questo sito rappresenta un perfetto connubio tra storia, architettura gotica e leggenda. Ogni visitatore che si avvicina all’abbazia senza tetto non può che rimanere colpito dall’atmosfera mistica che avvolge il luogo, incastonato tra campi di grano e strade di campagna.
Storia dell’Abbazia di San Galgano
L’Abbazia venne costruita nel XII secolo dai monaci cistercensi e completata nel 1268. Questo maestoso edificio religioso è dedicato a San Galgano Guidotti, un cavaliere che abbandonò la vita di battaglie e guerra per intraprendere un cammino spirituale. La sua scelta di rinunciare alla vita mondana per seguire un percorso di pace è oggi simboleggiata dalla spada nella roccia, un emblema della leggenda legata al santo.
La leggenda di San Galgano e la spada nella roccia
Non lontano dall’Abbazia, sulla collina di Montesiepi, si trova uno degli elementi più iconici del territorio: la spada nella roccia. Secondo la leggenda, San Galgano, in segno di rinuncia alla vita di cavaliere, conficcò la sua spada nel terreno, trasformandola in una croce. Oggi, questa spada è custodita all’interno della Rotonda di Montesiepi, una cappella circolare che sorge nel luogo del suo eremitaggio.
Un viaggio nel passato tra le rovine gotiche
Passeggiare tra le rovine dell’Abbazia di San Galgano regala una sensazione unica. Le mura senza tetto creano una connessione diretta con il cielo, rendendo il luogo particolarmente suggestivo. La luce del giorno filtra tra le antiche pietre, creando giochi di luce e ombre che sembrano raccontare storie dimenticate dei monaci cistercensi che un tempo abitavano qui. Il vento che attraversa l’abbazia sembra sussurrare preghiere di un’epoca lontana, trasformando la visita in un momento
Come arrivare all’Abbazia di San Galgano
L’Abbazia di San Galgano si trova a circa 35 km da Siena e a 30 km da Massa Marittima. Il modo migliore per raggiungerla è in auto. Da Siena, è possibile prendere la Strada Statale 73 (SS73) in direzione di Chiusdino e seguire le indicazioni per l’abbazia. Il sito dispone di un ampio parcheggio nelle vicinanze, rendendo facile l’accesso per i visitatori.
Prezzi dei biglietti per l’Abbazia di San Galgano e la Rotonda di Montesiepi
L’ingresso all’Abbazia di San Galgano ha un costo di 4 euro a persona. Per chi desidera visitare anche la Rotonda di Montesiepi, dove si trova la famosa spada nella roccia, è disponibile un biglietto cumulativo. Il biglietto per visitare entrambi i siti (Abbazia e Cappella) ha un costo di 6 euro. La visita permette di scoprire da vicino la suggestiva storia del cavaliere che abbandonò la sua spada per dedicarsi a una vita di pace e riflessi
Val di Zoldo: alla scoperta di una meraviglia nascosta
Ci sono centinaia, migliaia di luoghi nella vita che rischiano di rimanere per sempre al di fuori del tuo orizzonte visivo per il semplice motivo che non ne senti mai parlare o perché il tempo a tua disposizione è limitato e alla fine, è sempre questione di scelte.
Della Val di Zoldo non avevo mai sentito parlare prima di trasferirmi in Veneto. Eppure le Dolomiti popolate da vette leggendarie e valli che sembrano sbucate fuori da un libro di fiabe, credevo di conoscerle abbastanza bene, dato che le frequento sin da bambino.
Cerca la meraviglia
Una delle cose che non smette mai di sorprendermi di questo paese straordinario però, è che non puoi dare mai nulla per scontato. L’Italia è uno di quei misteri che sei destinato a non risolvere mai, pur sapendo che non smetterai di provarci. Perché, in fondo, sta proprio in quel cercare, nella bellezza di quella scoperta che non è mai definitiva e che ti porta a spingerti sempre un po’ più in là il senso più vero e compiuto della vita.
Gruppo del Civetta da Passo Staulanza
Le cose un po’ nascoste che profumano di autentico mi affascinano, per cui, in una spettacolare e tersa domenica di quasi autunno, io e Eli decidiamo di imbarcarci in questa nuova avventura. Il temporale della sera prima ha lavato il cielo, per cui ora è sgombero e lucido come non lo era da mesi. I colori sono accesi, i contorni delle montagne vividi, la voglia di scoprire un altro angolo di mondo, intensa. Uno zaino in spalla, qualche panino, acqua in abbondanza e tanta voglia di meravigliarsi sono gli unici ingredienti che ci servono per mollare gli ormeggi e partire.
Forno di Zoldo
Goditi il viaggio
C’è poco traffico, le ruote solcano l’asfalto consentendoci di proseguire a un’andatura costante. Nello specchietto Conegliano e Vittorio Veneto, con i vigneti che disegnano un paesaggio da cartolina, sfrecciano via come dardi di luce che rimangono nell’iride per il tempo sufficiente a lasciare una fugace impressione. Usciamo a Belluno e puntiamo verso Longarone, paese gemellato con Bagni di Lucca, situata a una ventina di chilometri da Lucca, la mia città natale.
In qualche modo, questo paese, riesce a farti sentire a casa ovunque. Proseguiamo con andatura lenta e lo sguardo va in quella gola maledetta in cui torreggia l’impressionante diga del Vajont, teatro di un disastro senza precedenti. Non saprei dire precisamente cosa ma qualcosa, nell’aria, qualcosa di pesante, mentre respiri, lo avverti ancora.
Arrivo in Valle
Procediamo ancora un poco fino a che, sulla sinistra, si palesa il cartello che indica la Val di Zoldo. Lo assecondiamo e iniziamo l’ascesa. Il primo tratto di strada è una serpentina sinuosa che costeggia un costolone di roccia che ci accompagna sino all’imbocco della Valle che ad un certo punto si spalanca davanti agli occhi, raddrizzando, finalmente, qualche curva di troppo.
Vista sulla Val di Zoldo (foto di montagnadiviaggi.it)
Il primo paesino della Val di Zoldo che incontriamo durante la nostra lenta salita alla scoperta di questo territorio è Mezzocanale, già quasi disabitato verso la metà di Settembre, perché qui, a differenza delle altre valli dolomitiche, un po’ di turismo resiste solo d’estate e quando arriva la stagione morta il silenzio e la calma arrivano ad essere pressoché totali. Sono molte le case sprangate per via dell’abbandono o della fine improvvisa delle vacanze e la sensazione che proviamo, guidando a velocità ridotta per assorbire un po’ di più di quel grumo di territorio che si sfalda a poco a poco per rivelarcisi, è quella di una quieta nostalgia, triste e rasserenante.
Forno di Zoldo
Puntiamo verso il piccolo abitato di Forno di Zoldo, forse il più rappresentativo dell’intera valle e decidiamo che è il momento per una sosta. Ci fermiamo sotto il tendone di un bar per il caffè e ci incamminiamo alla scoperta di un paese che ha visto l’apice della sua gloria in era rinascimentale quando l’intera Val di Zoldo era piena di altiforni (come testimonia ancora il nome dell’abitato principale della valle) che fondevano i minerali ricavati dalle piccole miniere locali, per forgiare il ferro che poi veniva trasferito a Venezia. L’intera valle, situata in provincia di Belluno, è solcata dal torrente Maé che scrutiamo dall’alto mentre ci incamminiamo per sgranchire un po’ le gambe nella bella passeggiata lungo il torrente che costeggia Forno di Zoldo.
Forno di Zoldo
Forno di Quà
Di là dal ponte che attraversa il canale si arriva a Forno di quà ( così denominata perché sta al di qua del torrente Maè) su cui risiede una parte dell’abitato locale ed è possibile vedere alcuni esempi di costruzioni tipiche locali e restauri di antiche dimore appartenute ai comandanti Veneziani che dominavano su queste Valli in epoche più antiche. Camminiamo per un po’ godendoci un bel paesaggio, respiriamo un’atmosfera tranquilla e rigenerante, poi torniamo sui nostri passi che di cose da vedere ce ne sono ancora molte e la strada da fare è ancora tanta. Continuiamo l’ascesa lenta e delicata fino alla parte alta della valle, proseguendo ad un’andatura blanda che ci permette di lasciar entrare negli occhi la bellezza.
Alla scoperta della Val di Zoldo Alta: Passo Staulanza
Ci fermiamo infine a Passo Staulanza, anfiteatro naturale magnifico sorvegliato dal Monte Pelmo e dal Gruppo del Civetta, punto di partenza per numerose escursione tra cui quella che conduce al Rifugio e Lago Coldai, uno dei più belli di tutte le Dolomiti.
Monte Pelmo
Pranziamo al sacco, godendoci il sole fuori dal rifugio che batte con insistenza, senza però far sudare.
Passo Staulanza
Dopo pranzo ci spingiamo ancora più su, verso Passo Giau, concludendo così un viaggio che ci lascia addosso un’altra emozione. Al rientro il sole è una lingua arancione che lecca i margini aguzzi delle montagne prima che imbocchiamo le gallerie che riportano a valle. Tu respiri piano e guardi spesso fuori dal finestrino, inebriandoti di ciò che vedi, io sorrido guardando te.
La macchina si inerpica a fatica su per gli ultimi tornanti che separano dalla vista delle creste aguzze delle dolomiti di San Martino mentre nell’abitacolo risuona un blues lento e avvolgente che fa da colonna sonora a questo particolare viaggio. Metti una sera d’estate a San Martino di Castrozza, un piatto di qualcosa lì di fronte, un vento tiepido e le pale di San Martino che accolgono l’ultima luce del giorno…era un pensiero che avevo in testa sin dal primo momento in cui mi sono seduto in ufficio quella stessa mattina. Perchè no, mi sono detto?
Una sera d’estate a San Martino di Castrozza
Essendo per me una situazione completamente nuova il poter abitare a un’ora e un quarto di macchina dalle dolomiti, decido di sfruttarla, concedendomi una serata tutta per me da trascorrere in compagnia delle pale di San Martino. Dopo quaranta minuti scarsi le gallerie scompaiono e lo sguardo è libero di vagare su prati ben curati, popolati da mucche che pascolano in mezzo alle valli sorvegliate da serene cattedrali di roccia illuminate dall’arancione dorato di un tramonto estivo. Non so quanti anni sono trascorsi dall’ultimo tramonto che ho avuto la fortuna di vivere sulle dolomiti. Penso siano almeno quindici, trascorsi così, in uno sbuffo di vento. Mentre elaboro un simile pensiero, avverto la fatica e lo stress di una giornata complicata, dissolversi come per magia.
Le pale di San martino
Sono denominate così queste montagne dall’aspetto grintoso che appartengono di diritto alle dolomiti. Fermo la macchina nel parcheggio sorridendo qualcosa di disteso e fresco, avviandomi a recuperare la felpa nel bagagliaio. Mangio un boccone in un posticino tranquillo, all’aperto, godendomi la bellezza insita nell’abitare con la massima pienezza un momento come questo. Mentre assaporo un cibo genuino e leggero, mi perdo nelle luci dell’ultimo sole che giocano a trasformare le pareti delle dolomiti in uno spettacolo straordinario. Dopo cena passeggio per le vie del centro, cercando di assorbire ogni dettaglio. Presto attenzione al vento, alle espressioni distese delle persone, al cinguettio delle rondini che avvolge come un balsamo le sere estive. La chiesa è illuminata con fiaccole calde che contrastano quasi alla perfezione col cobalto del cielo che si scurisce già ad ovest.
Prima di dormire
Mi spingo un po’ fuori dall’abitato, diretto verso un Hotel di legno illuminato a festa. Dalle finestre spalancate sul salone da pranzo riecheggiano sorrisi e schiamazzi di bambini mentre costeggio il bosco in cui le ombre si addensano già fagocitando i colori del mondo in un’oscurità che disturba e rasserena allo stesso modo. L’aria è permeata da una leggerezza che dovrebbe sempre appartenerci e che invece capita di respirare di rado e che ritrovi con frequenza nelle sere d’estate, all’ombra delle dolomiti. Mi trattengo fino all’imbrunire. Passeggio molto, rimango in silenzio e osservo, osservo moltissimo e mentre osservo, lontano dalle distrazioni, dalle notifiche, dalla velocità di un mondo che corre verso il baratro, mi accorgo che la giornata appena trascorsa è scomparsa per lasciar posto ai momenti così unici e pieni che sto vivendo. Salgo in macchina a un quarto alle dieci, alle undici e mezzo sono nel mio letto minuscolo, col rumore dell’aria condizionata che fa da sottofondo al mio prender sonno. Mentre chiudo gli occhi sorrido. Nelle iridi ho ancora le dolomiti.
Trento città ariosa, elegante e minuta, circondata dalle sue Prealpi, è uno sbuffo di vento gelido che in inverno ti costringe a metter mano al cappello per evitare che voli in aria e poi atterrare chi sa dove, e in estate a tirar fuori per tempo le bottigliette d’acqua fresca in modo da evitare il collasso. Percorrendo le strade del centro è impossibile non accorgersi di alcune nobili dimore che conservano sulle loro facciate affreschi cinquecenteschi esposti da secoli alle intemperie, eppure intatti nella loro regale bellezza.
Trento: bellezza austera e regale
Nettuno guarda il Duomo, mani gelate e co.
Il Duomo di San Vigilio è una candida meraviglia che si distende serena ad occupare una vasta porzione di superficie dell’immensa piazza che lo ospita. Persino Nettuno, che si erge altero in cima alla bellissima fontana costruita in suo onore, volta le spalle agli spettatori per godersi un simile spettacolo. Trento sono le tue gote rosse che sbucano d’improvviso da una tazza di vin brulè, in mezzo a canzoni di Natale sparate dalle altoparlanti a volume altissimo, che rimbalzano sulle risa distorte di alcuni passanti.
Dicono sia un’illusione che il vino scaldi quando è freddo, ma le mani congelate e doloranti fino a un attimo fa, adesso riesco a sporgerle verso le tue dita. Quando svanisce l’effetto però- e accade più in fretta del previsto- sono costretto a correre ai ripari, affondandole nei meandri più reconditi delle tasche. Tu cerchi i guanti e ci soffi dentro, con l’assurda pretesa di scaldarli prima di infilarteli. Sorrido guardandoti soffiare sul tessuto scarlatto e pelosetto che li riveste. Hai il naso rosso e somigli un po’ a un nano di Biancaneve che ha alzato il gomito. Non di certo per l’aspetto, per quello, Biancaneve, manco la vedi, ma nella goffaggine carina, in quella sì, gli somigli eccome.
una regale austerità
Nel pomeriggio scendono in strada un po’ tutti. Spostarsi per le vie del centro diventa complicato, per cui, puntiamo verso una zona un po’ più periferica. L’orologio dice che è tardi ma forse riusciamo a sbirciare al di là del cancello prima che chiudano. La porta è aperta, per cui affrettiamo il passo per raggiungere l’ampio ingresso che introduce al castello del Buon Consiglio. Questa dimora antica custodisce macabri segreti che sono rimasti appesi ai rami scheletrici di alcuni alberi dell’immenso giardino, addobbati, per l’occasione, con sottili fili di luci che brillano poco e hanno un colore un po’ smorto. Nel complesso l’impatto è lugubre, ma un che di suggestivo, nonostante l’aura tetra, riesco a coglierlo.
Prima di rientrare transitiamo di fronte all’enorme statua di Dante che troneggia di fronte alla stazione, voltando le spalle alle prealpi. Siamo lontani da Firenze, ma lo spirito che ci accomuna, pare dirci il poeta, è lo stesso sull’Arno, sull’Etna e sulle Alpi. Alzo gli occhi sul naso adunco, e mi soffermo per qualche attimo sul suo cipiglio austero, salutandolo con un sorriso mentre stringo la tua mano un po’ più forte.
Percorro una strada ricoperta di foglie secche in un bosco arioso, dominato da pioppi e castagni che abbandonano al vento alcune foglie, gustandomi le meraviglie offerte da una giornata tiepida e limpida, fino a quando una brusca salita, interrompe il mio incedere placido e sereno. Non ci sono alternative, per cui, armatomi di pazienza, fatico il necessario per arrivare sulla sommità del piccolo colle privo di alberi che spalanca una vista mozzafiato sulla vallata sottostante. Giunto in cima sorrido, soffermandomi sul mare boscoso in cui mi immergerò di nuovo a breve, pensando al modo con cui certi spettacoli si impegnano a ripagare la tua fatica.
Crocicchi d’autunno, un viaggio fantastico in giro per l’Italia
Riprendo fiato e mi disseto, prima di scendere sull’altro versante. Giunto alle propaggini del bosco, però, mi guardo attorno, sentendomi un po’ stranito. Questo percorso lo conosco da molti anni, eppure, per qualche strano e incomprensibile motivo, non lo riconosco. Cerco ovunque i segni rossi e bianchi tracciati dal CAI sui tronchi ma non ne vedo da nessuna parte. Impossibile che mi sia perso, penso, continuando però a non rinvenire alcunchè di familiare nel paesaggio che mi circonda. La conferma di aver imboccato un sentiero sconosciuto, arriva quando, scavalcando un lieve dislivello, mi trovo di fronte a un crocicchio di due sole strade che recano incisa la stessa singolare dicitura: Italia. Digradano entrambe verso il basso. Mi guardo attorno, indeciso sul da farsi e stropiccio gli occhi.
Quando li apro, mi si para davanti uno spettacolo assurdo. Le due strade sono scomparse e, al loro posto, ne sono apparse decine di centinaia. Inizio a sudare in preda a sensazioni poco piacevoli. Il bosco è silenzioso e persino il vento pare essersi fermato adesso. Voltandomi, mi rendo conto che nemmeno il viottolo da cui provengo esiste più. Sono circondato da sentieri che conducono chissà dove. Ma che diamine sta succedendo? Assecondando le sensazioni contrastanti che richiamano la mia attenzione, mi accorgo che stupore e curiosità spiccano sulle altre. Con le gambe che tremano lievemente scelgo un sentiero qualunque e provo ad avventurarmici, ma non riesco a completare un solo passo perché qualcosa mi solleva da terra, avvolgendomi completamente, per risputarmi, una frazione di secondo dopo, a centinaia di chilometri di distanza. Tremando, mi guardo attorno sgomento e incredulo. No, impossibile.
Un viaggio nello stupore
Vestito con abiti pesanti, più adatti a un bosco di montagna che a una città di mare, mi ritrovo a camminare nei vicoli di Napoli, a quasi settecento chilometri esatti dal punto reale che fino a un attimo prima occupavo nel mondo. I sapori intensi che escono dalle botteghe e dai numerosi ristoranti che danno sulle strade anguste mi fanno venire l’acquolina in bocca. Non so se ho più paura o fame in questo momento ma penso che quest’ultima prevalga. Qualcuno nomina un castello sul mare che ricordo di aver visto di sfuggita in un depliant e un attimo dopo mi trovo a fissare l’acqua turchese del golfo di Napoli da Castel dell’Ovo. Ma che razza di magia è mai questa? Torno col pensiero al bosco e avverto una centrifuga all’altezza dello stomaco, poi un pop, e in un attimo sono al crocicchio. Il chiasso e il sole di Napoli, scomparsi chissà dove. Tremo ancora, ma la curiosità ha di nuovo la meglio, per cui muovo un passo in un altra direzione e qualcosa mi risucchia ancor più a sud. Una fila sterminata di fichi d’India e il profumo degli aranceti, che si mischia a colori intensi e a una parlata inconfondibile, mi dice che sono in Sicilia. Schermandomi gli occhi dai raggi intensi, con mia grande sorpresa, mi ritrovo a osservare lo spettacolo mozzafiato dell’Etna che digrada dolcemente verso il mare da un gradino del teatro greco di Taormina.
Nel vortice
Un battito di ciglia e sono a Firenze. Ho una tazzina in mano e siedo sotto l’elegante tendone di un bar. Spostando lo sguardo solo un po’ più a destra, colgo le geometrie inconfondibili del duomo di Santa Maria del Fiore sovrastato dall’elegante ombrello di mattoncini del Brunelleschi. Numerose schiere di turisti scattano foto, additando quella costruzione impressionante su cui non mi capacito di star posando lo sguardo. Quel pensiero rimane a metà perchè, un altro vortice mi risputa a Pisa, sui lungarni dominati dai colori sgargianti degli edifici che si specchiano sul fiume. Qualcosa comunica col mio inconscio dicendomi che da quel momento posso spostarmi con la mente, senza necessariamente dover ripassare dal bosco. Scelgo di lasciar fuori la censura del pensiero razionale per adesso- rischio di impazzire altrimenti- e accetto la cosa come una verità incontrovertibile. Mi concentro sulla prossima destinazione e scompaio, per riapparire in un altro luogo.
Leggende d’autunno
Continuo così per un lasso di tempo che non saprei definire godendomi sprazzi di città grandi e piccole, centri rurali, monumenti dimenticati, passeggiate lungo mari e fiumi e riposi in piazze magnifiche, inondate dalla luce del pomeriggio, senza però riuscire ad abituarmi alla strana sensazione prodotta da quei vortici, che ricordano un po’ quello che accade ai panni in lavatrice. Più scopro l’Italia e più ne innamoro, più viaggio e più vorrei farlo. A un certo punto avverto uno schiocco assai più sordo degli altri che prelude a un cambiamento. Continuo a spostarmi ma più lentamente. A sorpresa, riprendo a ripassare dal bosco alla fine di ogni viaggio, accorgendomi che le strade iniziano a rimpicciolirsi e che molte di esse, sono già sparite. Mi affretto allora a percorrerne altre, prima che si dissolvano. Passeggio sul Ponte degli Alpini, a Bassano, specchiandomi per un’istante nelle limpide acque del Brenta, e un attimo dopo, da Castel san Pietro, dominato dai suoi cipressi, osservo le torri aguzze ed eleganti di Verona scintillare avvolte dalla calda luce del crepuscolo.
La velocità con cui accade tutto questo mi destabilizza ma non smetto di viaggiare, di osservare, di assaporare. C’è un altro schiocco secco che mi costringe a chiudere gli occhi, poi un boato Quando li riapro mi ritrovo avvolto dal silenzio, interrotto solo dal lieve rumore prodotto dalla pioggia di foglie che domina i boschi d’autunno. Le strade sono scomparse, e persino il crocicchio. Rimangono gli alberi mossi da un vento leggero e il ricordo vivido di mille Italie, uniche e diverse, accomunate dalla bellezza. Ho le gambe un po’ molli quando ritorno sui miei passi e continuo a domandarmi se alla fine, non ci sia del vero in alcune leggende che aleggiano come spettri bonari e scherzosi sul bosco d’autunno.
È il primo giorno d’estate, sono quasi le otto di sera di un martedì qualunque e in spiaggia siamo rimasti in pochi. È la prima volta che affondo i piedi sulla sabbia in questo 2021, e il suo tocco lieve, caloroso e delicato, mi è mancato più di quanto fossi disposto a credere. Il mazzo di carte con cui si divertono alcuni giovani che hanno la pelle già scura, nonostante l’estate sia appena agli albori, mi ricorda come gli eventi della vita, somiglino alla mano casuale con cui siamo chiamati a giocare.
Non sta a noi scegliere quello che peschiamo. Possiamo solo provare a giocarcele al meglio quelle carte, anche quando non sono proprio quelle che spereremmo. L’ho immaginato tante volte nel corso di questi mesi infiniti scanditi da colori e chiusure, distanze e ricordi, come sarebbe stato tornare a specchiarsi nelle acque limpide di questo mare che conosco sin da bambino. Questi tronchi sbiancati dal sale, che in inverno ricoprono quasi per intero l’arenile, si trasformavano in chissà quali diavolerie nella mia immaginazione e i bastioni di sabbia erano fortezze imprendibili, da espugnare a son di spruzzi di salmastro. I sorrisi erano spontanei, le complessità ridotte a un semplice sbuffo che se ne andava come era venuto. Sorrido pensando che il bambino di quel tempo resiste ancora da qualche parte dentro me. C’è a chi va peggio.
Le apuane si stagliano nel cielo azzurro che sopra la Versilia vira già verso il blu intenso della sera, mentre osservo il lento e costante andirivieni delle onde. Le file di ombrelloni che iniziano qualche centinaio di metri più a nord rispetto al quadrato insignificante di spiaggia che occupo, corrono via fino all’orizzonte intervallando colori sempre diversi che profumano amabilmente d’estate. Sull’altro versante, le gru del porto di Livorno sono perfettamente visibili, così come l’immenso grattacielo di piazza Roma.
La costa toscana mi si srotola davanti agli occhi, simile a un tappeto indorato dai raggi infuocati di un sole che chiude la curva in maniera spettacolare e si diverte a regalare un tramonto che ci godiamo in pochi, mentre affondo le mani nella sabbia e provo a trattenerne un po’ in un pugno. È impossibile, lo so bene, eppure non smetto mai di provarci, chissà perché. Le isole si scorgono nitide a quest’ora. Gorgona è poco più di uno scoglio che incontro quasi subito con gli occhi, nel mare di fronte a Livorno, mentre l’Elba, fiera e bellissima, si staglia sull’orizzonte lontano come un miraggio che attende solo di avverarsi. Si vede persino la Corsica, ed è raro d’estate, a causa della foschia.
Chiudo gli occhi per un attimo e respiro la brezza della sera, abitando pienamente quei momenti. I pensieri in riva al mare si fanno più chiari, tornano attimi inconsistenti e bui di questo periodo infinito e vuoto. Torna il silenzio di certi giorni, spezzato, per fortuna, quasi subito dagli schiamazzi di alcuni bambini che giocano a rincorrersi sulla battigia Uno di loro perde l’equilibrio e casca in acqua inzuppando completamente i vestiti che la madre gli aveva appena messo addosso. Rimane seduto, indeciso se piangere o arrabbiarsi, poi ci ripensa e sorride. Fa sorridere anche me perché la gioia, anche se a volte finisco per dimenticarlo, è qualcosa di semplice che si ritrova anche in un giorno qualunque come questo.
Attendo che il mare inghiotta l’ultima lingua di sole prima di raccogliere le mie cose. Rimango a fissare le onde che si increspano lievemente in prossimità della riva , grato per aver vissuto la meraviglia di un altro tramonto.
Il Veneto di meraviglie ne ha tante: città d’arte leggendarie, paesaggi sognanti che intervallano a lunghi tratti di pianura colline che digradano lievemente sino ai margini delle città, ricoperte da vigneti che producono vini soavi. Accanto alle cose che tutti conoscono però, ce ne sono moltissime – e sono quelle che mi attraggono di più- che rimangono ai margini delle mappe. Resistono, come piccole isole nascoste frequentate perlopiù dai locali che tentano di salvaguardarle gelosamente dall’avvento di un turismo di massa chiassoso e ingombrante. Se si punta in direzione delle montagne, poco sopra Verona, si accede a un paradiso naturale che, per certi versi, ricorda assai da vicino la Tolkeniana contea degli Hobbit. Ho abitato a Verona per quasi tre anni e la Lessinia l’ho scoperta in quel periodo, grazie ai consigli di persone che mi spingevano ad avventurarmi in quella zona.
Dopo aver rimandato per un bel po’ di tempo, un bel giorno di maggio di un paio d’anni fa, in compagnia della mia dolce metà, scelsi di avventurarmici. Fu un approccio lento e consapevole quello che utilizzammo per scoprire un territorio che ha del meraviglioso. Questo altopiano, che fa parte del Parco Regionale Naturale dell’Alta Lessinia, è strategico per almeno due motivi: fa da scudo a Verona, riparandola dalle fredde incursione dei venti del nord e consente a coloro che lo visitano di posar gli occhi su di un’ampia porzione di territorio che abbraccia le prealpi trentine da una parte, e dall’altra è libero di indugiare, dopo aver attraversato tutta l’Emilia, celata sempre da un lembo di lieve foschia, sulle creste docili dell’Appennino Tosco Emiliano.
Mentre assaporavo la gioia di un paesaggio quasi dimentico della presenza umana, intuibile solo dalla presenza di alcune malghe che spuntavano qua e là sui rialzi di colline erbose di aspetto gentile, capii immediatamente di essere giunto in uno di quei rari luoghi che parlano una lingua silenziosa che necessità di tempo per essere appresa e compresa. Percorremmo un sentiero che costeggiava un’ampia foresta di conifere e attraversammo numerosi cancelli in legno che separavano una zona di pascolo dall’altra, osservando dall’alto pozze d’acqua di forma rotondeggiante popolate da mucche e qualche Daino che, accortosi della nostra presenza, ci osservava insospettito, pronto a scattare via se ci fossimo azzardati ad avvicinarci.
Dopo aver camminato perso di vista il tempo giungemmo in prossimità di una malga e ci sdraiammo sull’erba per goderci il tepore del sole caldo di maggio sulla pelle. A quell’altezza a scottarsi si fa presto e quella stessa sera ne patimmo le conseguenze. Le ombre fecero presto ad allungarsi e attendemmo il tramonto per osservare il modo unico con cui il sole accarezza le propaggini di quelle verdi colline giocando coi tetti delle case che popolano i piccoli centri abitati di qui, così singolari e diversi da quelli di ogni altro luogo, spalmandovi le ultime lingue di luce arrossata e timida che precede il crepuscolo.
Le ombre silenziose dell’Appennino sbucciato dall’ultimo sole si allungano verso le propaggini dei boschi mentre la macchina arranca inerpicandosi su di una stradina che punta verso un agglomerato di case dal cuore di pietra. L’Appennino modenese nelle belle giornate d’autunno tinge il mondo con toni antichi e un po’ dismessi che permettono di rievocare sensazioni dimenticate da lungo tempo. Un po’ quello che accade con quei sorrisi che affiorano dopo essersi immersi nel cuore pulsante di un ricordo e con le emozioni che continuano ad appartenerci anche dopo che le abbiamo vissute.
le ombre silenziose dell’Appennino sbucciato dall’ultimo sole
Viste emozionali
Un trattore sferraglia in mezzo ai campi alzando un po’ di polvere che il vento si diverte a portar via, restituendo al cielo la sua naturale trasparenza, mentre circumnavigo una buca assai profonda. Questi prati chiusi a nord dal massiccio del Monte Cimone si aprono su vallate dolci popolate da pascoli, foreste e pochi sparuti casolari che servono da punti di riferimento per orientarsi nel paesaggio. In lontananza le valli scompaiono nuovamente per lasciar spazio alle grinze inconfondibili e antiche con cui l’Appennino impedisce allo sguardo di correre oltre e distendersi, magari, sul mare della Toscana che si nasconde lì dietro.
Da bambino nelle giornate di fine estate giocavo con le macchinine sui pietroni antichi, al riparo dai venti di fronte alla parete erbosa del Monte Cimone. Allungando un braccio verso il cielo mi pareva quasi di riuscire ad accarezzarla con le dita la vetta. La vita, in quei giorni, era intrisa di profumi intensi e suoni magnifici.
tramonto appenninico
Ricordi
Tra questi, ce n’erano un paio che amavo più degli altri: Lo scampanio delle pecore che risuonava nell’aria ogni mattina alla stessa ora e il sibilo prodotto dal vento, che, intrufolandosi nel cuore del bosco, rallegrava il suo passaggio con melodie arcane che produceva servendosi dei rami su cui resistevano alcuni ricordi di un’estate lontana. Sono gli stessi anche adesso quei suoni e quei colori, ne sono certo, eppure, guardando la fitta boscaglia che si spalanca oltre la nube di polvere sollevata dal contatto degli pneumatici con lo sterrato familiare del parcheggio di quel vecchio monastero, abitato oramai solo per brevi periodi dell’anno dai vacanzieri, penso che siano i miei occhi ad esser mutati nel mentre.
Mentre ingrano la quinta osservando con la coda dell’occhio il profilo sfuggente e innevato del Monte Cimone che si erge fiero sullo sfondo e corre via anche troppo in fretta, mi immagino in piedi con la prima brezza della sera d’autunno a scompigliarmi i capelli di fronte a quell’edificio in cui pulsa un cuore di pietra dimenticato. l’A1 oggi, nei pressi di Modena, è un rincorrersi di autoarticolati e smog che macinano chilometri diretti chissà dove. Seguo i cartelli per Firenze senza fretta, mentre quelle sensazioni iniziano a scemare e allontanarsi. Continua ad esserci poca gente in giro. Muoversi per fare qualsiasi cosa è ancora un’utopia e viaggiare, tra tutte quelle possibili, rimane ancora la più distante.
vista del Cimone
Un ultimo sguardo
Osservo per l’ultima volta il profilo del Cimone prima di essere inghiottito dalle gallerie infinite che mi conducono verso un altrove che, per adesso, esiste solo nei miei pensieri. Il cielo ha una tonalità turchese che profuma di speranza e primavera mentre penso a come respira il vento lassù, di sera, quando la coltre di stelle riveste il cielo con un prisma di diamanti che rimangono imprendili dalle città inquinate da luci chiassose ed accecanti. I filtri che utilizziamo per prepararci al confronto con gli altri non esistono ancora e io ci spero che non arrivino proprio mai, in modo da poter tornare, quando ne sento il bisogno, a posar gli occhi sulla terra nuda e dura, aspettando la carezza del vento che ,sfiorandomi, mi guarda attraverso.
Socchiudendo lievemente gli occhi per sfuggire al riverbero intenso del sole che rimbalza per un’istante sullo specchietto, mi pare quasi di respirare L’odore intenso delle messi bruciate che sale dal fondovalle, ma è un’illusione come le altre intrappolata in un ricordo che corre via accanto ai camion chiassosi e pachidermici di un’autostrada qualunque.